Normalità e salute



Fabio Guidi


Il Lavoro interiore è un fenomeno olistico che comprende tre aspetti:
a) l’aspetto individuale, che riguarda il rapporto che abbiamo con i nostri contenuti bio-psichici;
b) l’aspetto relazionale, che riguarda i legami con le persone a noi più vicine;.
c) l’aspetto sociale, che riguarda il mondo culturale nel quale siamo immersi.
Nel lavoro su di sé, questi tre aspetti sono indivisibili, vanno di pari passo, e nessuno di essi può essere trascurato. Spesso, però, non facciamo abbastanza attenzione ai condizionamenti sociali e alle catene che ci fanno diventare vittime della «tirannia della normalità». ? Parlo dei valori del senso comune, della pubblica opinione, delle regole del ‘sistema’ o di qualche gruppo sociale cui facciamo riferimento.
Ti pongo un paio di domande apparentemente banali, ma che, viste più attentamente, non lo sono affatto. Chi è più «sano»? La «normalità» è un criterio regolativo per la nostra salute psichica? Abraham Maslow, nel suo celebre Verso un psicologia dell’essere, è molto chiaro a proposito:

«Certamente è sempre più chiaro che il cosiddetto «normale» in psicologia è in realtà una patologia del «medio», così privo di qualità drammatiche e così diffuso che abitualmente neppure lo notiamo. Lo studio esistenzialista dell’autenticità della persona e della vita scopre questa falsa immagine, questo vivere di illusioni e di paure, ponendolo sotto una luce cruda e penetrante che la rivela chiaramente come malattia, anche se molto diffusa. [...]
Chi tradisce il proprio talento, il pittore nato che si mette a vendere calze, l’uomo intelligente che vive una vita banale, chi vede la verità e non apre bocca, il vigliacco che rinuncia alla propria dignità, tutte queste persone percepiscono profondamente di aver fatto torto a se stesse, e pertanto si disprezzano. In sostanza, respingo deliberatamente la nostra presente, e troppo facile, distinzione tra malattia e salute, almeno per quanto riguarda i sintomi superficiali. Essere ammalati significa forse accusare sintomi? Ebbene, sostengo che la malattia può consistere nel non accusare alcun sintomo quando dovrei accusarlo. E la salute significa essere privi di sintomi? Quale dei nazisti ad Auschwitz o a Dachau era in buona salute? Quelli con la coscienza tormentata, o quelli a cui la loro coscienza appariva chiara, limpida, serena? In quella condizione, una persona profondamente umana era possibile non avvertisse conflitto, sofferenza, depressione, furia e così via? In una parola, se mi direte di avere un problema di personalità, prima di avervi conosciuto meglio non sarò affatto certo se dovrò dirvi “Bene!” ovvero “Mi dispiace”. Dipende dalle ragioni che mi porterete. E queste, a quanto pare, possono essere cattive, oppure, invece, ottime.»

Il dolore e la sofferenza sono talvolta reazioni salutari ad una situazione di «follia» collettiva. Si può essere adattati o meno, non è qui il problema. Il problema è invece a quale situazione, a quale ambiente, a quale società siamo adattati. Non è sano adattarsi facilmente ad una situazione sociale patologica. Con Maslow, anche noi possiamo chiederci che cosa si deve pensare di uno schiavo ben adattato. 
Come è possibile rimanere indifferenti di fronte all’irrazionalità del sistema: ecco il sintomo patologico. Vuoi un esempio lampante e drammatico insieme? Il famoso psichiatra esistenzialista David Laing, in un bellissimo intervento (dal titolo emblematico: L'ovvio) all'interno di un convegno organizzato dalla corrente dell'Antipsichiatria, riporta un esperimento fatto da uno psicologo, Stanley Mílgram, presso la Yale University, sull'ovvietà dell'obbedienza. É, questa, una paginetta estremamente significativa e illuminante.

«Il dottor Milgram reclutò 40 volontari, tutti uomini, che credevano di dover prendere parte ad uno studio sperimentale sulla memoria. Questi 40 uomini avevano un'età tra i 20 e i 50 anni e facevano i lavori più diversi. Alcuni soggetti erano impiegati postali, insegnanti di liceo, commercianti, ingegneri e operai. Uno di loro non aveva finito la scuola elementare, ma altri avevano il dottorato o altri diplomi. [...] Lo sperimentatore era aiutato da un uomo simpatico e mite che faceva la parte della "vittima". Lo sperimentatore parlò con ciascun volontario e, insieme, con la "vittima", che fingeva di essere un altro volontario. Disse ai due che si dovevano investigare gli effetti della punizione sull'apprendimento e in particolare gli effetti di vari gradi di punizioni e di vari tipi di insegnanti. Si disposero le cose in modo che il volontario faceva sempre la parte dell`"insegnante" e la "vittima" faceva sempre la parte di colui che apprende. La "vittima" fu legata ad una specie di sedia elettrica. Il volontario-insegnante fu portato in una stanza attigua e posto di fronte ad un complesso strumento chiamato shock generator. [...] Davanti all`"insegnante" era una fila di trenta interruttori che andavano da 15 a 450 volt. [...] Il volontario-insegnante fu portato a credere che doveva dare punizioni sempre più severe alla "vittima", che forniva. risposte preparate in anticipo.
La "vittima" dava risposte sbagliate a tre domande su quattro e riceveva delle scosse come punizioni per i suoi errori. Quando la scossa-punizione raggiunse i 300 volt la "vittima", come era stato convenuto, cominciò a tirar calci nella parete della stanza in cui era legato alla sedia elettrica. A questo punto il volontario-insegnante si rivolgeva allo sperimentatore per sapere cosa doveva fare. Gli veniva detto di continuare, dopo una pausa di cinque o dieci secondi. Dopo la scossa di 315 volt, la vittima tirava calci nuovamente. In seguito, silenzio. A questo punto dell'esperimento i volontari­insegnanti cominciarono a reagire in vari modi, ma furono incoraggiati ad andare avanti e fu loro ordinato di proseguire fermamente fino al massimo del voltaggio. Il dottor Milgram dichiara che, contrariamente ad ogni aspettativa, ventisei soggetti su quaranta completarono la serie e diedero alla fine una scossa di 450 volt alla "vittima" ormai silenziosa. Soltanto cinque si rifiutarono di continuare dopo la prima protesta della vittima, al momento in cui le fu impartita (apparentemente) una scossa di 300 volt. Molti continuarono, nonostante manifestassero notevoli disturbi emotivi, come dimostrarono chiaramente i loro commenti, un sudore continuo, tremore, risate o sorrisi nervosi. I volontari­insegnanti che continuarono a somministrare le scosse manifestarono spesso pietà per la vittima, ma la maggioranza represse le proprie reazioni umane e continuò fino alla massima punizione, come era stato ordinato.Un osservatore riferì: "Osservai un maturo uomo d'affari, dapprima equilibrato, che era entrato nel laboratorio sorridente e tranquillo, trasformarsi dopo venti minuti in un disgraziato che si stava rapidamente avvicinando ad un collasso nervoso. Si tirava continuamente il lobo dell'orecchio e si storceva le mani. Ad un certo punto si batté la mano sulla fronte e borbottò: "Dio mio, facciamola finita". E tuttavia continuò ad obbedire fino all'ultimo ad ogni parola dello sperimentatore.»

Queste sono persone «normali». Domandiamoci se poteva esistere un Hitler senza l'appoggio delle persone «normali». Ecco perché Laing, durante lo stesso intervento, afferma: «Per troppo tempo gli psicologi si sono occupati della psicopatologia degli anormali. É necessario ora che si studi la situazione psicologica normale, mettendola in relazione con un normale stato di cose di cui il Vietnam [qui siamo nel 1967] è soltanto una delle più normali manifestazioni».
Cominciamo a intravedere che la critica alla normalità coinvolge direttamente la nostra coscienza politica. Infatti, spesso la maggioranza delle persone (che in un contesto "democratico" stabilisce il criterio di ciò che è giusto e ciò che è ingiusto) rifiuta l'evidenza delle cose, come è dimostrato dall'esperimento di Milgram. La «psicosintesi sociale», così come ogni serio Lavoro di sviluppo interiore, non può che assumere le vesti, prima o poi, di una radicale critica sociale.