Nel mondo proiettivo
Angela Teresa Girolamo
Si sta come gli zombie,
Coi prosciutti sugli occhi.
In un mondo proiettivo come il nostro, dove cioè ognuno vive e vede una realtà completamente diversa da quella dell'altro, una realtà soggettiva, filtrata dai propri stati emotivi, i propri bisogni frustrati, la propria esperienza personale, le proprie aspettative, e poi gli schemi mentali e ideologici presi in prestito, quando non francamente scippati, da altri (e, quindi, spesso anche - male - interpretati), il dramma (il vero DRAMMA) non è la solitudine come stato esistenziale, bensì una solitudine affollata e collettiva basata sulla totale incapacità di comunicare. Un'incapacità che alla lunga, oltre che sordi e ciechi, ci rende anche muti. Uno vicino all'altro, ci tocchiamo eppure siamo talmente ottenebrati dal nostro bisogno (di considerazione, potere, affermazione, ecc) , che l'altro esiste solo in funzione di quanto può soddisfarlo. Né più né meno.
Come si può ascoltare? Non vogliamo ascoltare perché non c'è spazio per il mondo dell'altro nel nostro: è già tutto inquadrato, inscatolato. Tutto ha la sua collocazione, definizione, per quanto contraddittoria e fasulla. Persino le nostre inconciliabili nevrosi hanno una giustificazione forzosa e banale: io - scrollatina di spalle, come se davvero lì ci fosse un Io - sono fatto così. Fine della storia. Non vogliamo ascoltare perché radicalmente infantili: preferiamo ribadire la nostra eterna, inconsolabile, puerilità. Se devo passar la vita a battere i piedi e strepitare, urlare quanto ingiusta sia e sia stata la vita con me, io - grugnito offeso, come se davvero lì ci fosse un Io! - non posso perdere tempo ad ascoltare che minchia c'ha da dire l'altro, non mi interessa. L'unica cosa che mi interessa è ribadire la mia immutabile, strabordante puerilità, e i suoi bisogni mai paghi. Ribadire la mia repressa rabbia che si tramuta in gusto per l'orrido, il sozzo e il distruttivo, il mio sdolcinato modo distorto di vedere le cose, il mio superficiale bisogno di possesso, il mio devastante senso di inadeguatezza (per cui, chi ti credi di essere tu?). Ciò che mi può, semmai, interessare è solo ciò che mi rispecchia, che mi tocca perché parte di me: se non è narcisismo questo... Ascoltare implica un atto di adultità, la rivelazione che - guarda un po'! - non ci siamo solo io e le mie pretese a questo mondo. Ci sono altri, che potrebbero essere persino più interessanti di me e la mia sciocca storia. E nel profondo (nel PROFONDO) uguali a me: della mia stessa sostanza, che prende volume e peso proprio quando vi rivolgo uno sguardo puro e sincero. Allora posso comunicare in modo oggettivo: oh, che sollievo, sapeste che liberazione è essere capiti nel profondo, sentire che esisti davvero proprio perché esiste qualcuno là fuori diverso da te, e che riesce a sentirti... meglio di quanto persino i tuoi stessi sensi possano fare! Scoprire che esiste un modo, una dimensione interiore dove c'è spazio per un intero pianeta e ancor di più, dove con uno sguardo, senza nemmeno parlare tu cogli insieme all'altro una verità intima e universale. Com'è idiota, superficiale, nauseante e noioso il mondo delle proiezioni, dove ognuno dice la sua senza soffermarsi, dio buono, a capire davvero. A fermarsi un attimo e affondare le mani nelle cose, per capirne la forma sul serio, senza tirare a indovinare, come se dare aria alla bocca sia una specie di dovere da assolvere sempre e comunque. Non tutti gli impulsi devono essere assecondati, specie se non hai la più pallida idea di cosa siano e da dove vengano davvero. Ma già capire questo presuppone una capacità di autoascolto, disidentificazione da quegli impulsi e controllo propria di chi un minimo di accortezza e rispetto l'abbia già maturato: e non si può dunque pretendere dalla massa puerile. Credo che per far quel passettino, dall'infantilità all'adultità, serva fare il vuoto mentale: bisogna abbandonare l'idea di avere un'idea esatta su tutto; abbandonare ogni opinione, ogni schema, diffidare dei moti emotivi più stupidi, scontati e superficiali. Ogni volta che emettiamo una sacrosanta banalità, con l'ansia di metter a tacere l'incontinenza emotiva da due soldi, muore una possibilità di comunicare ed evolversi. Distinguere ciò che vogliamo vedere da ciò che è, questo è un atto d'Amore verso se stessi e l'altro: pulisce le lenti sporche con cui guardiamo il mondo, è l'unico vero sforzo che esprima interesse vero, una premura, una cura nel volersi mettere nei panni di qualcos'altro, qualcun altro, e prepara il terreno all'accoglienza vera del bello, del buono di qualsiasi altra cosa non sia, per l'ennesima volta, io. In un mondo oggettivo la solitudine diventa altro: un'esistenza che non separa più, in cui si sta accanto ad altri senza escluderli, senza fraintenderli, senza coprirli del mio giudizio proiettivo.
È solo pura crescita di un vero (ora sì, possiamo dirlo) Io; ma questo solo chi ha maturato uno sguardo e un sentire oggettivo può comprenderlo.