L'uomo che vide l'infinito
Gianluca Mondini
Il titolo di questo post, «L'uomo che vide l'infinito», è stato preso in prestito dall'ononimo film del 2015 sulla storia di un certo… Srinivasa Ramanujan.
Rama-chi?
Per i più, diciamolo, Ramanujan è un nome sconosciuto. Per i matematici e pochi altri, al contrario, si tratta di un nome assimilabile a certi giganti come Newton o Eulero. Di chi stiamo parlando, esattamente?
Srinivasa Ramanujan è stato un matematico indiano, vissuto a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento. Divenne famoso non solo per i suoi straordinari lavori sulla teoria analitica dei numeri, sulle sommatorie e partizioni (no, davvero, non sono parolacce), ma anche per il singolare processo che lo portava alle sue scoperte matematiche.
Le complesse formule da lui elaborate erano spesso enunciate senza alcuna dimostrazione, nascendo da un'intuizione, da un'immagine. Per lui le formule «erano così», semplicemente, senza sentire l'urgenza di dimostrare il «perché fossero così». Un tale approccio risulterebbe ridicolo in qualsiasi ambito e nessuno potrebbe essere preso sul serio, se non fosse che le formule di Ramanujan, una volta applicate, andavano a risolvere problemi matematici di altissimo livello che nessun altro ancora era riuscito a risolvere. Ramanujan scriveva formule dal nulla, tutti i cervelloni e i professoroni ridevano, poi applicavano la formula e si accorgevano che era giusta. Bam, asfaltati.
«Un'equazione per me non ha senso, se non rappresenta un pensiero della Dea», era solito ripetere Ramanujan riguardo alle sue complesse formulazioni. La dea a cui faceva riferimento era Namagiri, la «dea della sua famiglia». Ramanujan sosteneva che le equazioni gli venissero rivelate da Namagiri stessa durante i riti e i sogni.
Il giovane Ramanujan studiò la matematica in gran parte da autodidatta, e apprese i rudimenti del linguaggio scientifico-matematico da un testo di George S. Carr che gli era capitato tra le mani. Limitato dalla situazione culturale dell'India della fine del diciannovesimo secolo, contesto piuttosto diverso dal fiorente clima scientifico che al tempo imperversava in occidente, considerata anche la quantità di intuizioni e risultati che lo sommergevano fin dalla giovane età, nel 1913 decise coraggiosamente di spedire una lettera (con tanto di una lunghissima sfilza di suoi teoremi allegata) a tre professoroni di Cambridge, in Inghilterra: H. F. Baker, E. W. Hobson e G. H. Hardy.
Di questi solo il terzo, Hardy, il più eminente matematico inglese dell'epoca, riconobbe la genialità del ragazzo – gli altri due professori neppure gli risposero – e ciò dette il via a una delle più fruttuose collaborazioni nella storia della matematica.
Hardy, affascinato dalle straordinarie capacità intuitive di Ramanujan a contrasto con la sua relativa mancanza di un'istruzione accademica, affermò a riguardo che:
«i limiti della sua conoscenza erano sorprendenti come la sua profondità. Era un uomo capace di risolvere equazioni modulari e teoremi... in modi mai visti prima, […] e tuttavia non aveva mai sentito parlare di una funzione doppiamente periodica o del teorema di Cauchy, e aveva una vaga idea di cosa fosse una funzione a variabili complesse...».
Al di là dei termini matematici, basti capire quanto Hardy fosse rimasto colpito da Ramanujan, e sbalordire Godfrey Harold Hardy non era certo cosa da poco.
Com'è immaginabile, ciò fece sbigottire buona parte dei professori di Cambridge: un indiano sbucato dal nulla, senza alcuna formazione accademica, in grado di risolvere alcune delle problematiche matematiche irrisolte persino dai più grandi cervelloni del tempo?
Il metodo di Ramanujan presentava tuttavia un importante limite, che male lo faceva adattare al contesto scientifico del tempo: al di là delle sue intuizioni di carattere quasi visivo, che lo portavano a formulare equazioni anche estremamente complesse e inarrivabili col semplice intelletto, in certi casi non era però capace di dimostrare «ciò che aveva visto». In qualche modo, si può dire che egli fosse in contatto con una sorgente di conoscenza più profonda e diretta, quella che lui attribuiva a Namagiri, una fonte di conoscenza che gli forniva indicazioni basate su intuizioni e visualizzazioni – Ramanujan sosteneva appunto di «vedere i numeri», – ma era poi incapace di dare una forma stabilita, dimostrabile, accettabile quindi dal rigore del metodo scientifico-matematico. Ramanujan aveva bisogno di qualcosa o qualcuno che dalla luce lunare rischiarasse con luce del sole le sue esatte, ma troppo «astratte», intuizioni.E fu proprio Hardy ad aiutarlo in questo – assistito da John Littlewood, un collega – e insieme i due realizzarono un'accoppiata formidabile: Ramanujan intuiva i problemi e le equazioni, e successivamente Hardy lo aiutava per dar loro la forma necessaria per renderle accettabili e condivisibili con le altri menti e col resto del mondo.
Al di là di evidenti osteggiamenti da parte del resto dei professori, dati anche dalla sua nazionalità, i meriti di Ramanujan ottennero infine il riconoscimento che meritavano (un pregio della matematica è che una formula è giusta a prescindere da quanto la gente dice, e un problema è risolto indipendentemente dalla nazionalità o dal metodo adottato da chi l'ha risolto). Ramanujan fu quindi nominato membro del Trinity e persino della Royal Society, accostando quindi il suo nome a quello di alcuni suoi “colleghi” del calibro di Albert Einstein, Isaac Newton, Charles Darwin e Max Plank (giusto per citarne alcuni), anch'essi membri della stessa prestigiosa associazione.
Fermiamoci qui con la biografia: per chi volesse approfondire la storia di Ramanujan e le sue scoperte, queste sono ampiamente documentate sui testi storici e scientifici, così come da documentari e film, inutile dilungarsi oltre.
Ci sarebbe molto di cui parlare. Per esempio, è impossibile non porsi domande come: da dove nasce una scoperta? Dove emerge l'intuizione che c'è alla sua base? Certe domande forse non possono trovare risposta in una trattazione puramente meccanicistica del processo scientifico, quanto piuttosto devono forse andare a prendere in considerazione tematiche più ampie come il funzionamento della psiche, del processo creativo – dalla scienza fino all'arte, – fino a toccare tematiche come la psicologia del profondo e la spiritualità. Ramanujan stesso attribuiva alle sue scoperte un origine religiosa, e sembra infatti che egli fosse rimasto un bramino per tutta la vita.
Vi è un ultimo aneddoto piuttosto significativo. Solamente una decina di anni fa è stata fornita da Ken Ono, un matematico statunitense, la dimostrazione di alcune delle funzioni matematiche speciali (le funzioni mock theta), da Ramanujan intuite circa un secolo prima. Tali funzioni hanno rivelato di poter descrivere esattamente il livello di entropia all'interno dei buchi neri. Come Ramanujan abbia potuto “vedere dentro” uno di questi mostri galattici armato solo di carta e matita, per di più con le limitate conoscenze a disposizione nei primi del Novecento, questo resta ancora un mistero.
Da qui il titolo del post, che riprende il titolo del
film. Mi piace pensare che Ramanujan, assistito forse dalla sua dea
Namagiri o da una qualche altra capacità psichica, religiosa o
spirituale, sia davvero riuscito a dare una sbirciata e a descrivere una
parte dell'infinito.