Quello che non riuscivo a spiegare

 

Gianluca Mondini

C'è un passaggio - magari è solo un momento, non lo so - in cui sento difficile vivere con pienezza quelle cose che la gente di solito si aspetta, o le cose che io mi aspetto da me stesso. Fatto è che, al di là che io riesca ad ascoltarlo con costanza o meno, spinge un “metro interiore” che misura una cosa precisa: l'avvicinarsi o l'allontanarsi da un certo senso di intimità con me e col mondo d'intorno. Arrivo a scoprire che certe cose sbandierate, dicono significative, cose che la gente fa normalmente - o che farebbe, se ne avesse la possibilità - apprezzate, ambite, o particolarmente riconosciute, non portano poi in quella direzione. È faticoso ammetterlo, perché fa restare spaesati, senza stelle. È come scoprire l'ennesima strada a fondo chiuso, accorgersi che la bussola che ho in mano, che fino a oggi è funzionata (o credevo funzionante) forse non funziona più.
 
È difficile ammetterlo anche di fronte a chi si ha d'intorno, tu lo capisci, perché ci si trova poi a sbattere così su un muro di delusione e distanza. I pochi ascoltano, mentre l'enorme maggioranza, semplicemente, chiude la questione col «non saper godere delle cose». Non mostro l'«entusiasmo che dovrei», non corro nella loro direzione, e così tradisco le loro aspettative, - cioè, leggendolo letteralmente, la gente si sente tradita e non resta più lì ad aspettare. Questo mi spaventa, ed è così che la solitudine opera il suo ricatto su di me rendendomi vigliacco e silenzioso.
 
Resta comunque un senso di traverso, per questo scrivo, qualcosa per la gola, il bisogno di spiegare come la vista di un paio d'uccelli che volano, la mattina, possa riempirmi più di un'intera giornata passata a spendere per i negozi, a sentirmi dire "bravo" o del vivere in una casa del tutto rifinita.
 
E nel dire questo, nel migliore casi divento qualcuno di speciale perché parlo in maniera poetica o metaforica, uno un po' esagerato nell'esprimersi, che ragiona per iperboli. È buffo trovarsi a sentire invece l'opposto, che una delle poche cose che uno abbia mai sentito così profondamente reale è quel paio d'uccelli che volavano, e che sia invece ai miei occhi il mondo intero a essere “poetico”, nel senso di essere aggrappato a una qualche metafora, come se la gente vivesse «per qualcosa» inseguendo invece «qualcos'altro».
 
Sentire l'aspetto tangibile di questa cosa è rognoso, perché scardina tutto il conosciuto. Penso sia normale che questo spaventi come fa paura a me, così che non si possa più dire a nessuno (e diventa rischioso anche solo pensarlo) come, chessò, lo sporcarsi le mani e le ginocchia mentre si ingrassa una catena, all'ombra, con un po' di vento e in silenzio, possa darmi un senso di completezza incomparabile rispetto, non so, al prendere parte a una conferenza coi doppiopettisti del team di Google venuti dall'America, e che neppure il passare una serata in compagnia di tanta gente possa farmi trovare quel senso di vicinanza e intimità di cui in questi giorni sento di avere bisogno.
 
Certo, si sa, ho bisogno di molte cose, del calore, della gente e della loro considerazione. Ne sono affamato. Solo che non capisco se tutto questo sia un fine, oppure sia solo lo strumento, una «zattera», come si racconta in quella storia, per trovare qualcos'altro. Di certo non possono essere punti d'arrivo: non trovo possibile che sia davvero tutto qui. Ma questo porta a uno scontro continuo col mondo, col suo modo di pensare e di parlare. Anche tizio che mi racconta delle ore passate a rendere perfetta la veranda mi suscita allo stesso tempo ammirazione, invidia e distanza. Un certo dolore. Lui è nel suo giardino, fatto di tante cose, io nel mio, fatto di altre. Così forse ha ragione l'Appeso quando dice che il mondo si deve guardare al contrario, che lo si deve leggere all'opposto di come ci è stato insegnato di fare. Che poi sia così adesso e non lo sia più domani, che ne so, scrivo solo di quello che sento ora. La gente questo non lo crede, che il mondo sia rovesciato, e se parlo della «gente» come qualcosa fuori di me, che non mi riguarda, tu lo capisci, è per vigliaccheria, per tirarmi fuori, perché ho difficoltà a crederlo anch'io.
 
Perché sentire che a quell'intimità, a quella pienezza dell'essere qui, si va incontro in modi del tutto diversi (quando opposti) rispetto a come ho imparato e creduto finora, questo fa crollare tutto. Non per forza quello che c'è fuori, ma per certo deve venir giù tutto quello che gli anni di idee, di cosa è bello e giusto e di cosa non lo è, gli anni di «come bisogna essere» o «cosa fare» mi hanno costruito dentro. È un pensiero che dice di lasciare andare, di fare spazio, di sentire cosa c'è sotto e dentro le cose, di fronte al quale persino ciò è più inoffensivo e "meraviglioso", per come lo si dice di solito, può diventare soltanto uno specchio, pesante e opaco, un telo che copre quello che c'è davvero.
 
Così ora non lo so più dire se alla fine saranno i castelli a prendere il sopravvento su di me, coi sogni che si portano dentro, oppure se un giorno le cose si mostreranno per come sono. Così ecco, quando l'altra sera mi hai visto poco entusiasta, forse un po' deluso, come se avessi perso qualcosa, era per questo motivo. Perché ho sentito che casa mia, forse anche di altri, è dall'altra parte rispetto a dove vedo correre la gente e dove spingo a correre anch'io. Questo fa male, ed è per questo che dimentico. Per questo così spesso mi vedi a metà, che a volte non sai come prendermi. Non lo so neppure io. Così le parole non mi uscivano, e ti ho detto soltanto che mi sentivo un po' solo. Scusami, ma non sapevo parlarne. Per questo ho scritto. Questo era quel pensiero che l'altra sera non riusciva ad andarsene via.