La verità ti fa male, lo so
Angela Teresa Girolamo
É, ahimè, la terza regoletta di vita del nostro Gruppo di Meditazione di Turi.
Ma noi, quest'anno, la affrontiamo per seconda, dopo l'Ascolto, che abbiamo visto essere una regoletta cardine della stessa meditazione.
«Mi impegno a praticare la verità
delle mie parole, dei miei pensieri, e dell'espressione di me.»
Non sembra così difficile da attuare, ad uno sguardo superficiale. Il problema è attuarla in modo psicosintetico.
A prima vista, infatti, sembrerebbe un invito a usare la bocca come un colabrodo, quel che cioè molti fanno con la scusa del "Eh, sono fatto così. Sono un tipo "diretto", ma pane al pane vino al vino".
Al "sono fatto così", in modo altrettanto diretto verrebbe da dire "E sei fatto male, figlio mio". Come se la "sincerità", non richiesta e soprattutto non utile allo scopo, brutale e diretta sia sinonimo di verità. É, più spesso, solo sinonimo di maleducazione. La verità delle parole è un'altra cosa. Non, quindi, il semplice "dire la verità".
Si può dire una bugia, se è a fin di bene, purché sia coerente con la nobiltà d'animo che cerchiamo di coltivare.
É più qualcosa che ha a che fare con il "valore" della verità. La verità, se è vera, va detta se è utile e buona; e non sarà solo, perciò, un'informazione vera, ma anche il modo autentico, d'amore, d'utilità, con cui verrà detta.
Può essere amara, certo; il più delle volte è proprio così. Ma ciò non toglie allora che, se è utile e buona, possa essere detta con autentica compassione, a quattr'occhi magari, con quel garbo che non appesantisce ulteriormente il carico. Oppure con la verve e la passione che, autentiche, accompagnano quella verità.
Ha anche a che fare col "merito". La mia verità te la devi meritare.
La mia autenticità e spontaneità, se corrispondono ad un nucleo caldo e vulnerabile di me, non possono essere esposte e regalate a chiunque. La verità, soprattutto, andrebbe detta quando è scomoda ma indispensabile date le circostanze, quando tenerla per me è qualcosa di vicino a un crimine, uno scopo non solo un mezzo.
E infine, ha a che fare con l'onestà, con se stessi prima ancora che con gli altri: una pulizia interiore per avere il coraggio di guardarsi allo specchio, e negli occhi, e senza vergogna. Dirsi le cose così come stanno, è indispensabile come punto di inizio di qualunque cosa, o qualunque cosa prima o poi andrà in malora.
E la verità dei pensieri? Coltivare la verità di pensiero implica un lavoro certosino di ricerca di una verità oggettiva, per formulare opinioni critiche sulle cose del mondo: quel che pensiamo riguardo ai temi sociali, alle decisioni politiche, ad una persona. Osservare in modo disidentificato dalla storia personale, da ciò che ho letto e sentito dire, dalle emozioni che provo, dalla classe sociale e lavorativa (le caste!) cui appartengo, dalle influenze culturali e psicologiche, cercare il vero che, per citare una mia cliente, ti parla più con le sensazioni del corpo che con i ragionamenti del cervello; un cervello oggi sempre più astratto e scollegato dalla natura autentica delle cose. É la verità, cioè, dell'autentico intellettuale, ormai in via di estinzione.
Coltivare pensieri veri vuol dire staccarsi dalle proprie opinioni cultural-emotive. Vuol dire in primo luogo trovare una risposta onesta alla domanda: io chi sono? Che cosa sto facendo? Dove sto andando così?
Vuol dire osservare chi hai intorno: perché cerco la compagnia e l'approvazione di queste persone? A chi o cosa appartengo?
Vuol dire osservare la società che hai intorno, i grandi temi e problemi: osservare che se provi disagio davanti a una scena ma tutti ridono, se senti che in una storia qualcosa non ti torna, ma tutti l'approvano, forse non sei tu quello inadeguato, forse sei l'unico sano di mente in un mondo malato. Come diceva Krishnamurti, non è segno di salute mentale essere ben adattati ad una società malata. Porsi domande sulle cose e cercare una propria risposta oggettiva, onesta, aderente al vero il più possibile, che abbia buonsenso e senso pratico è un dovere, non una facoltà, cui particolarmente oggi, sommersi dalla massificazione e dall'overdose di contenuti, siamo chiamati se vogliamo essere persone. Ché ad essere formiche, invece, non ci vuol proprio nulla.
Ma la parte tosta di questo precetto è l'espressione di sé.
La verità nelle azioni. E non vuol dire solo nei gesti, ma proprio nelle intenzioni, nell'atteggiamento di quei gesti.
Bisogna avere il coraggio di essere coerenti, sforzarsi di diventare uno, una persona definita e integra in ogni contesto. Con saggezza, furbizia, e onore: essere autentici, in tal senso, implica sapere chi sei e cosa ti porti dentro, conoscere i tuoi demoni e i tuoi angeli nel profondo, sforzarti di essere autentico con quelli che lo meritano, come si diceva, ma coerente coi tuoi valori con quelli che non lo meritano e senza scadere al loro livello.
Significa che non puoi mentire a chi ami e ti ama davvero, ma puoi essere anche duro, non amabile e perciò autentico specialmente con chi non stimi e non ti stima davvero.
Significa dare forza e valore a una parola, con le azioni. Sconfessare una realtà ipocrita e disgustosa può essere doloroso, e certamente non democratico, ma se fatto con amore e onore non è un atto esecrabile.
Purché sia utile allo scopo: dire in faccia, ad esempio, alla donna che ben lo sa, sotto sotto, che lui le confeziona regolarmente un copricapo ramificato da non poter passare da una porta di dimensioni normali, è utile se lei non vorrebbe averci a che fare con quella verità?
E' utile dire in faccia al tuo nemico, potente e nella posizione di poterti nuocere con un mignolo, quel che pensi di lui? Assolutamente no: vi sembra ipocrita, cinico, falso? Io dico che è acutamente intelligente, in luogo di un suicidio assicurato quanto inutile. Quando dovessero invertirsi le parti, se vi sono le condizioni indispensabili e favorevoli, si potrebbe anche dire. Di certo, in verità, nel frattempo non gli andrete a "slinguazzare" alcuna parte del corpo, e oltre che veri sarete stati anche dignitosi.
É utile ricordare a un uomo-zerbino che, nonostante lei l'abbia piantato, e per un altro con cui gliela fa sotto al suo naso, ma lo cerca regolarmente perché, in fondo, è comodo avere uno zerbino di riserva con la scusa del "É bello e moderno restare amici, dopo", è utile, dicevo, rammentargli la sua palese scarsa dignità? Dipende. Se lo vuole sapere, sì. Se dà chiari segni di non volerlo sapere, no.
Salvatevi voi: che a salvare gli altri da se stessi siete fallimentari, sennò. Verità dell'espressione di sé vuol dire appunto questo: avere il coraggio, la spudorata decenza e la disciplina nipponica di sforzarsi di razzolare meglio di quanto non si predichi.
Di essere verità. Di sforzarsi di essere ciò che si ammira, ciò che si consiglia e, infine, ciò che si "racconta" (a sé e agli altri). Solo così la verità acquista valore: perché non l'hai solo detto, lo fai.