I nostri figli
Angela Teresa Girolamo
Oggi è successa una cosa.
Com'è notorio, non ho figli. Ma quel che creo in qualche modo mi diventa figlio, o io mi ritrovo ad esserne genitore... e insomma, avete capito.
Ognuno reagisce alle situazioni di stress come la struttura caratteriale gli impone. E io non ho fatto eccezione, andandomene per la deriva che, appunto, è propria della mia struttura, per qualche settimana. Poi mi sono svegliata.
E mi sono ricordata, chi sono io. E che ero molto incazzata.
E mi sono ricordata dei miei figli: i miei progetti. E i progetti dei miei clienti.
Ho un rapporto particolare coi miei clienti.
Chiunque prenda a cuore il lavoro come capita a me, può capirmi: non siamo amici. Un amico non ti paga il pane e l'affitto in cambio del tuo tempo, la tua creatività e il tuo lavoro. Eppure siamo spesso più franchi che tra "amici". E abbiamo una passione comune: il loro progetto. Il loro business.
Così, quel che dovrebbe restare un rapporto professionale, spesso non lo è perché... c'è questo entusiasmo comune: se crescono gli utili, il traffico social, e quello al loro sito, se crescono le opportunità di lavoro per loro... ecco, io gioisco come se l'azienda fosse mia. Ho fatto bene il mio lavoro.
Forse è per questo che resto in buoni rapporti con loro anche dopo che ho abbandonato il loro progetto.
Nonostante la stanchezza e la mia chiusura in quelle famose settimane, una cosa mi ha colpito: l'assoluta fiducia e stima di questi clienti. Sono rimasti al mio fianco, e io al loro, in attesa che mi riprendessi. Mi chiedono consigli, pareri; mi ascoltano; ridono con me; si sfogano con me.
Oggi è, quindi, successa questa cosa: un mio figlio era stato trascurato, non da me, e io mi sono svegliata, mi sono alzata e l'ho difeso.
Sto curando, come direttore editoriale e copywriter, con l'aiuto impagabile di quell'angelo della mia collaboratrice, un magazine. Che se tutto va come dovrebbe andare, diventerà un signor magazine. E' tutto pronto, dal mio punto di vista, da settimane. La scarsa professionalità di terzi attori ancora ne impedisce la messa online.
Oggi mi sono alzata, e con la grinta e la cazzimma che ho imparato in Toscana, ho ripreso pubblicamente questi attori, riparatisi dietro il dito "Mi era stato detto A, e io A ho fatto". No, gli ho detto, se sei un professionista, e quel lavoro lo consideri il tuo biglietto da visita e non solo "un compito da eseguire", compatibilmente con le regole del buonsenso, non puoi limitarti a fare A. Tu devi fare il meglio che puoi con quello che hai.
E vengo al punto: professionalità significa non essere meri esecutori. Quello lo fa un dipendente (a volte), che non a caso è "dipendente". Un lavoratore-figlio che aspetta le indicazioni come l'uccellino appena nato sta lì nel nido ad aspettare il vermetto che gli deve essere calato in bocca dal becco della mamma. Eppure, dicono i libri, persino un dipendente ha più stima di sè e del suo lavoro quando gli viene lasciata una piccola finestra di raggio d'azione in proprio. Chiamiamola intraprendenza.
Un libero-professionista è un genitore. Deve essere intraprendente non solo davanti agli occhi del fisco. Deve esserlo dentro. Deve capire quando deve "attaccare il ciuccio dove dice il padrone" e quando se un lavoro deve essere fatto bene, è necessario che si alzi e faccia quel "di più" che non è di più. E' il suo specifico punto di forza e di differenza rispetto alla massa di professionisti sulla scena.
Io quel di più lo sento il mio dovere. E' il motivo per cui quando, qualche mese fa, minacciai una persona di abbandonare il suo progetto, quella fece marcia indietro su certe cose che non mi erano piaciute, piuttosto che perdermi. Quando la smetteremo di comportarci come figli, nel lavoro, e inizieremo a comportarci come genitori, capiremo che molti dei problemi che attribuiamo ad altri, forse, in realtà siamo noi.